L’ozio NEL negozio
In un accorato e profetico libro scritto alla vigilia della seconda guerra mondiale, Lettera ai contadini sulla povertà e la guerra, Jean Giono fa un’interessante riflessione sul mondo del lavoro, che cercherò di sintetizzare qui di seguito nel modo più corretto possibile.
Lavorare la terra non è di per sé un “lavoro”: se ci si limita a coltivare quanto necessita al sostentamento di sé e della propria (eventuale) famiglia, è una parte della vita, un aspetto della vita.
Nel momento in cui qualcuno pensò che sarebbe stato meglio coltivare anche ciò che, sebbene non servisse al proprio nutrimento, poteva essere barattato con altro o venduto in cambio di denaro, tra vita e lavoro iniziò a crearsi una piccola fenditura, una distanza, poiché non si trattava più di generare semplicemente il cibo necessario a vivere ma di “produrre”.
Non c’era più una cosa sola (la vita) ma due (vita e lavoro).
Nel corso dei secoli questa distanza si è via via accresciuta, e con la rivoluzione industriale (la produzione elevata a finalità assoluta) ha subito un’accelerazione incontrollabile, tanto che oggi la maggior parte dell’umanità si trova nella condizione di svolgere, per una buona metà del proprio tempo vitale, un lavoro che poco o nulla ha a che vedere con ciò che ama fare, in un luogo che non gli piace, secondo un ritmo che non dà tregua.
Ciascun essere umano vive sostanzialmente come se fosse in apnea, senza respirare, ed è naturale che poi cerchi – nel tempo che gli resta nella giornata – di compensare questo disagio con tutta una serie di diversivi, per poter riequilibrare il suo sistema psichico e vitale.
Viviamo quindi tutti ormai una vita spaccata in due, letteralmente schizofrenica, e lo facciamo da talmente tanto tempo che non ce ne rendiamo nemmeno conto, tutti assorbiti nel grande negotium del mondo.
Anche la scuola – che sta formando le generazioni di domani – è ormai tutta finalizzata al lavoro, e quindi alla produzione, tradendo di fatto l’origine stessa della parola, il termine greco scholè, che significa – pensate un po’ – vacanza, riposo, tempo libero per poter apprendere: il latino otium.
È un processo non arrestabile, perlomeno in tempi brevi, per cui si tratta di trovare la maniera di far convivere uno o più momenti di “ozio” all’interno del “negozio”, se vogliamo evitare di consumare la nostra esistenza nello stress e allontanarci sempre più dalla nostra vera natura di esseri umani (vedi Essere “umano”).
Anni fa (quando ancora la fisica quantistica non aveva cittadinanza nella nostra cultura) una mia amica, superstressata da un lavoro che detestava, mi pose la questione di cui stiamo parlando e le detti una risposta apparentemente assurda: occorre trovare – momento per momento – lo spazio tra le molecole!
Ovviamente venni guardato come un deficiente, non andai oltre e mi ritirai in buon ordine. Ma l’idea mi restò, e – con il progredire delle mie esperienze – mi resi conto che non ero così lontano dal nocciolo del problema.
Quando siamo nel “negozio” (e non intendo solo produzione e commercio, ma ogni attività organizzata verso un obiettivo concreto) siamo di fatto ingranaggi di un meccanismo molto complesso e articolato, che – oltre a coinvolgere altri elementi (umani e non) – è radicato dentro di noi dall’abitudine e dal bisogno di sicurezze. Ma è sufficiente interrompere per un attimo questo meccanismo per abbandonare la periferia dell’esistenza ed entrare in connessione con sé stessi.
È veramente questione di un attimo! Non servono tecniche, si tratta di “alzare la testa” dal lavoro e decidere di fermarsi. Subito, in quello stesso istante, senza esitare.
Nel momento stesso in cui interrompiamo il flusso automatico delle nostre occupazioni entriamo di fatto in una “piega del tempo”, uno spazio temporale – il presente – in cui la vita scorre in modo diverso. Anzi, non scorre proprio!
In questa piega del tempo (che è sempre a nostra disposizione) possiamo fare qualche semplice respiro consapevole e ricordarci concretamente che abbiamo un cuore al centro del nostro sistema vitale, e che lì si trova la porta del nostro sé più intimo, l’unico luogo in cui possiamo davvero rifiatare e rigenerarci.
È l’ozio nel negozio, un istante di libertà (dell’anima) in cui il tempo e lo spazio si annullano, il meccanismo lavorativo si interrompe e noi entriamo in uno stato di particolare coscienza di sé.
Quando – dopo questa escursione nel tempo Kairòs (vedi Tempo) – torniamo alle nostre occupazioni, ci rendiamo subito conto che qualcosa è cambiato. Non nella situazione in cui siamo immersi, ma nel nostro modo di interpretarla. Non nella forma delle cose, ma nel nostro modo di maneggiarle. Tutto resta apparentemente uguale, ma tutto diviene sostanzialmente diverso.
Non è facile, poiché vi sono molte resistenze dentro di noi che cercheranno di mantenerci nel meccanismo, alla periferia di noi stessi, lontani dal nostro sé profondo.
Ma è semplice. Estremamente semplice.