Pi greco

Enrico Galiano, un meraviglioso insegnante con la vocazione di comunicare con i ragazzi (“Non ti ascoltano se tu per primo non li ascolti”) poi divenuto scrittore di buon successo, ha postato sul suo profilo Facebook la storia di un professore di matematica che un giorno, per spiegare a una classe parecchio rumorosa e maldisposta il Pi greco, disse più o meno questo:

«Il Pi greco, come sapete, è il rapporto tra la circonferenza di un cerchio e il suo diametro. Se mettete in fila tre diametri, ottenete “quasi” la circonferenza, poiché ne manca un pezzettino. Piccolo, piccolissimo, ma manca.
Il Pi greco ci parla di noi, ci dice cosa siamo: esseri imperfetti, destinati per l’eternità a cercare qualcosa che ci manca. Per secoli si è cercato di determinare in modo finito quel decimale che manca, ma si è scoperto che quel numero è … infinito.
Ogni giorno ci svegliamo e sentiamo che dovremmo magari dire quella cosa a quella persona, riparare a quell’errore, rifare un po’ meglio ciò che abbiamo fatto di fretta e male, e facciamo calcoli e progetti, tentativi, e a volte siamo così bravi e fortunati da trovare un numero in più, avvicinarci di un decimale, ci sembra che la felicità sia più vicina. Poi però qualcosa dentro di noi ci dice che non siamo ancora arrivati, che non era questo che cercavamo.
Un giorno, di solito dopo aver conosciuto qualche dolore, ci rendiamo conto che ogni numero che a volte troviamo è di fatto sempre più piccolo, che ogni decimale dopo la virgola è sempre più infinitesimale. E questo ci dice che voi ragazzi – che probabilmente pensate alla felicità come qualcosa di grande, che una volta che ce l’hai è fatta – più andrete avanti più vi renderete conto che a toccarvi nel profondo, a farvi sentire completi, basta il gesto piccolo e immenso di non smettere mai di cercare».

Bella storia, vero? Un insegnante formatore di coscienze, come ancora si trovano – qua e là – nel mare magno della scuola italiana. E davvero non è poco, in questi tempi un po’ alienati.
A me il suo discorso ha riportato alla memoria una serie di riflessioni che feci qualche anno fa sul Pi greco.

Immaginando che noi esseri umani siamo un sistema sferico con una periferia/circonferenza (la nostra apparenza esteriore) e un centro vitale (un atomo misterioso in corrispondenza del cuore, la radice della vita), il Pi greco è l’elemento che simboleggia il rapporto tra loro: per disegnare un cerchio, devi puntare nel centro e usare un raggio del compasso che è in “rapporto Pi greco” con la circonferenza che vuoi tracciare.
Questo rapporto è sancito quindi da un numero che non ha fine. Come a dire che per andare alla ricerca di noi stessi, per passare dalla nostra circonferenza/periferia (gli accadimenti che si susseguono sulla superficie della nostra vita) al nostro interiore profondo (ciò che genera e muove tali eventi) dobbiamo tener conto di un elemento che non ha confini, qualcosa di non-finito e non-definibile.
Il simbolo grafico che lo rappresenta (π) richiama l’immagine di una porta, come se fosse l’ingresso di un percorso, il passaggio tra il “finito” della nostra esistenza materiale e il “non-finito” della nostra essenza. Nel Corpus Hermeticum, un antico testo sapienziale di straordinaria ispirazione, Ermete dice a Tat:

«Di tutti gli esseri viventi del creato, l’uomo (e la donna, ovviamente) è l’unico essere duplice, mortale secondo la sua corporeità e immortale secondo la sua essenza».

Ha senso attraversare questa porta? Perché entrare in contatto con una dimensione così inafferrabile, così … immateriale? Vi è qualche utilità pratica?
Ciò che avviene alla periferia della nostra esistenza, gli accadimenti più o meno gradevoli in cui ci veniamo coinvolti via via (eventi, incontri, malattie, incidenti, ecc), sono effetti generati da qualche causa. E dove si trovano le cause? Come possiamo tracciare un cerchio, se non puntando il compasso nel centro? È al centro dell’essere che nascono i movimenti che causano gli effetti pratici nella vita materiale.
Riuscire a penetrare nel proprio interiore profondo permette quindi di comprendere cosa muove la nostra vita, e – una volta fatti gli indispensabili passi intermedi – di poter utilizzare questa comprensione per orientare correttamente il nostro agire di ogni giorno.

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