Un (nuovo?) anno
Quando comincia un nuovo anno è uso comune augurarsi uno sviluppo delle cose favorevole e se possibile migliore rispetto al periodo appena trascorso, e a fine 2020 è stato anche più facile del solito, poiché molte cose nel periodo appena passato sono state davvero difficili da vivere. Se non per tutti, almeno per molti.
Come l’immagine che abbiamo scelto per la copertina suggerisce, all’inizio di gennaio c’è stato quindi un fiorire di speranze riguardo a quello che ci riserveranno i prossimi dodici mesi su questo pianeta. Speriamo che sia così, ovviamente, che il 2021 porti una fioritura nella nostra vita, che il bocciolo in cui da tempo ci sentiamo tutti un po’ rinchiusi si apra e ci permetta di uscire all’aria aperta.
L’inizio di un nuovo anno è però anche una buona occasione per fare alcune riflessioni su noi stessi e sul modo in cui ci rapportiamo con la realtà.
Cosa ci auguriamo in genere nel passaggio tra un anno e l’altro? Dodici mesi prosperi, fortunati, pieni di salute e felicità per noi e per le persone a noi care, vero?! Tuttavia, circa duemilacinquecento anni fa il saggio Eraclito diceva: “Non sarebbe certo meglio se agli uomini accadesse proprio quello che si augurano”.
Va detto che Eraclito è sempre stato considerato un filosofo oscuro, difficile da comprendere, potremmo dire “ermetico”, tanto ai suoi tempi come oggi. Cerchiamo allora di fare un po’ di luce nella sua presunta oscurità.
Quando ci auguriamo qualcosa, cosa stiamo facendo in realtà? Semplificando, potremmo dire che in genere proiettiamo nel futuro il nostro desiderio di vivere nuovamente le situazioni che in passato ci hanno fatto stare bene e di evitare quelle che ci hanno fatto soffrire.
Noi umani abbiamo tutti un timore più o meno grande rispetto all’ignoto, per cui è naturale che le nostre aspirazioni vadano in genere verso situazioni già note, che non ci inquietano né tantomeno ci spaventano. Resta il fatto che, così facendo, finiamo per augurarci, per quanto riguarda il futuro, qualcosa che è legato profondamente – nel bene o nel male – al nostro passato. Infatti, non è possibile immaginare qualcosa che non faccia parte della nostra esperienza vissuta, in questa incarnazione o in una precedente, poiché ci mancherebbero i termini, le immagini, i punti di appoggio necessari a formulare il desiderio stesso (lascio volutamente da parte tutti i desideri indotti dalla comunicazione pubblicitaria, poiché quelli non sono nemmeno “nostri”).
Noi siamo oggi innegabilmente, tanto sul piano della coscienza che su quello della vita, il prodotto dell’insieme delle esperienze del nostro passato. E dato che in genere non siamo per nulla soddisfatti della nostra realtà esistenziale, è piuttosto curioso che non troviamo niente di meglio da fare che augurarci un futuro modellato, in fin dei conti, proprio sul nostro passato, che è il primo responsabile della situazione in cui ci troviamo ora.
È un bel circolo vizioso, vi pare?! Per questo, come dice Eraclito, non sarebbe certo meglio se agli uomini accadesse proprio quello che si augurano.
Ma allora … in cosa possiamo sperare? Perché la speranza è importante!
C’è qualcosa a cui possiamo aspirare che abbia a che vedere con la nostra natura profonda, la nostra vera natura? C’è un posto nel mondo che possiamo sentire davvero nostro, adatto a noi? Dove possiamo respirare senza ansia?
Non possiamo rispondere a queste domande senza prima affrontare la questione fondamentale: la nostra vita ha un fine? Tutti noi – voi che state leggendo e io che sto scrivendo – siamo alla ricerca di questo fine. Qualcuno di noi ha iniziato a farsene un’idea concreta, qualcun’altro ne ha sentito il profumo, qualcuno brancola forse ancora nella foschia del primo mattino … ma tutti sappiamo in fondo al cuore che un fine c’è. E che non può essere solo quello di nascere-esistere-morire.
Questo fine non si trova nel passato, altrimenti l’avremmo già trovato. E non può essere nemmeno nel futuro, perlomeno nel futuro che ci auguriamo di vivere, poiché – come abbiamo visto – è fondamentalmente una proiezione del passato.
E se fosse “qui”, dentro di me, nella profondità immateriale del mio essere più intimo?
E “ora”, nel presente, in quell’istante folgorante che sfugge allo scorrere del tempo?
Qui e ora non è infatti uno spazio e un tempo, è una “stanza della coscienza”.
Accedervi non è facile ma nemmeno impossibile, c’è una porta che vi conduce. Ne parleremo più diffusamente in qualche prossimo articolo, e intanto vi invito ad andare a leggere L’oltre e il di piu’, dove è citata una vecchia leggenda indù che dice qualcosa di curioso su questo argomento …
Oggi, qui e ora, all’inizio di questo 2021, se penso a qualcosa che ci possa aiutare ad affrontare in modo fecondo ciò che andrà ad accadere nella nostra esistenza, mi vengono in mente le parole del monaco Takuan, citate in “101 storie Zen”:
*Non si ripete due volte questo giorno.
Scheggia di tempo, grande gemma.
Mai più tornerà questo giorno.
Ogni istante vale una gemma inestimabile.*