La meta e la strada
C’è una massima tibetana che dice “Quando c’è una meta, anche il deserto diventa strada”.
È evidente che siamo davanti a un paradosso: nel deserto non esistono strade! Tuttavia, il paradosso (secondo l’etimologia greca, ciò che contrasta l’opinione) è un potente strumento per l’evoluzione della coscienza, poiché stimola la riflessione spingendoci “al di là del conosciuto”. La nostra logica abituale viene messa in corto circuito e i nostri neuroni sono forzati a trovare nuove sinapsi, nuove vie di collegamento tra loro.
Dunque, quando noi ci spingiamo verso un nuovo obiettivo (che non fa quindi parte di ciò che padroneggiamo, del nostro conosciuto), immediatamente si formano nel nostro cervello nuove strade, nuove sinapsi. In sostanza, è la meta che genera la strada. Perlomeno, questo è ciò che avviene nel nostro cervello.
La prova di questo è ciò che accade quando si invecchia: si tende a percorrere gli stessi gesti, a ricercare in primis il comfort dell’abitudine, a preferire la sicurezza all’incertezza dell’avventura … E così i neuroni si addormentano, le sinapsi si inaridiscono, pian piano succede come in un bosco, dove i sentieri non più percorsi vengono inghiottiti dalla vegetazione.
Ciò che avviene nel nostro cervello vale anche per la nostra esistenza?
Rispondo con un’altra domanda: potrebbe non essere così? Possiamo immaginare un’esistenza che non sia regolata da leggi valide ovunque, dentro di noi e fuori di noi?
Perché gli antichi saggi greci dicevano “conosci te stesso e conoscerai l’universo e le sue leggi”?
Proseguo supponendo che a queste quattro domande abbiate dato risposte simili a quelle che mi sono dato io (cioè sì alla prima, no alla seconda, no alla terza e “perché sapevano che l’universo è stato creato secondo un progetto intelligente e ordinato” alla quarta) e provo ad applicare tutto questo alla massima tibetana in cima all’articolo.
Quando abbiamo una meta, tra noi ed essa si crea (all’interno di noi stessi, innanzitutto) un legame, un collegamento. Dunque … una strada. Se manteniamo lo sguardo interiore fisso su quella meta, essa guiderà i nostri passi nel mondo, facendo in modo di farci in qualche modo percepire se una scelta è coerente con il nostro fine … se chi ci offre un aiuto vuole davvero aiutarci … se chi ci contrasta non vuole piuttosto farci mettere a fuoco aspetti della realtà che stiamo trascurando … se una malattia o un incidente stanno opponendosi alla nostra vita o se stanno semplicemente regolandone i tempi secondo un ordine (ah, l’ordine dell’universo …) che ancora non conosciamo.
Allora anche un deserto diviene una strada!
C’è anche un altro aspetto che vorrei trattare qui, valido – questo – solo per alcuni, per quelli che percepiscono la vita sulla Terra, in questo particolare momento della storia, come un arido deserto. Una realtà dove la bellezza del creato è sovrastata dall’orrore delle azioni umane, dove la gioia non trova spazio e ritmo, la fiducia non sa su chi posarsi, dove l’amore è un momento fuggevole, l’egoismo una norma accettata, la disillusione il pane quotidiano. Un deserto. Arido come non mai. In un deserto così, se si rimane soli si muore.
Per riuscire a vivere in una realtà percepita in questo modo sono indispensabili – a mio parere – due cose.
Una è che bisogna concepire e desiderare una meta “al di là del deserto”, una meta al di là della materia, una meta spirituale. “Il mio Regno non è di questo mondo” è una delle frasi più profonde e potenti dell’intero cristianesimo, un vero paradosso, se ci pensate. E ha una certa misteriosa risonanza con un altro paradosso, il detto taoista “Senza uscire dalla porta puoi conoscere il mondo, senza spiare dalla finestra puoi vedere la via del cielo”.
L’altra è cercare una carovana che abbia la stessa meta. E – una volta trovata – integrarsi con il suo ritmo (senza perdere il proprio), adattarsi ai compagni di viaggio, accettare le loro difficoltà, comprendere che solo la carovana può raggiungere la meta. Da soli si muore, nel deserto.