Il riconoscimento

Questo è un tema che ci riguarda un po’ tutti, su cui si potrebbero scrivere parole tante, forse anche logiche e circostanziate. Ma per questa volta preferisco astenermi e lasciare spazio al racconto di una piccola storia che mi ha toccato nel profondo, fino a commuovermi. È un brano di Chandra Candiani, estratto da un suo bel libro di prosa poetica, “Questo immenso non sapere”.

C’è in noi un bisogno radicale di riconoscimento che non ha nulla a che fare con l’ammirazione, la stima, la fama. È come un bisogno di benedizione, di parentela o almeno di familiarità, di iniziazione superata, di passaggio a stirpe che ti sceglie all’improvviso e ti dà il nome.
Una volta sono andata a vivere per un mese in una casetta in una foresta di una piccola regione francese. Era un “secadou” – quelle casine in pietra dove un tempo si seccavano le castagne – che qualcuno aveva adattato a semplicissima abitazione, ed era circondato da castagni secolari.
Appena arrivata, ho sentito il bisogno di presentarmi agli alberi, almeno ai più anziani e vicini a casa, per chiedere il permesso di restare. Mi sono avvicinata al più vecchio, mi sono inchinata e poi, accostandomi ai rami, gli ho detto che, se per lui e per tutti loro andava bene, sarei rimasta a vivere lì per un mese e che chiedevo la sua protezione. Un ramo si è spostato, con la grazia che solo i vecchi conoscono, e si è posato con le sue foglie proprio sopra la mia testa. Non c’era vento. Sono rimasta immobile, impietrita dallo spavento dell’amore che si realizza, dalla risposta. Ho sentito come se un padre grande e sconosciuto, in silenzio, mi mettesse una larga mano sulla testa per benedirmi e riconoscermi. Ho lasciato scendere le lacrime, restando fermissima, finché la persona che era con me è venuta a chiamarmi: allora gli ho fatto segno con il dito sulla bocca per chiedere il nobile silenzio, e gli ho indicato il ramo sopra la mia testa. Più tardi gli ho raccontato.
Nei giorni successivi ho guardato l’albero di mattina presto, di pomeriggio e di sera, l’ho salutato dalla finestrina della stanza in cima alla casetta, ma non ho più osato avvicinarlo, se non per una vaga carezza, passando. Non volevo chiedere prove. Ero certa.
Il giorno della partenza sono tornata a inchinarmi e a salutarlo. La “cosa” si è ripetuta, identica.
Sono stata riconosciuta e benedetta da un castagno molto vecchio. Non potrà mai esserci un riconoscimento pari a questo.

, a dispetto della nostra logica materialista, di quel che sappiamo (o che crediamo di sapere), queste “cose” accadono.
Mentre finivo di leggere sono stato travolto dal ricordo di quando la “cosa” era accaduta a me (sebbene in una circostanza e in una modalità assai diverse). E mi sono sentito ridicolo, pensando a quanto il mio vivere di ogni giorno sia talvolta povero della gioia e della pienezza che quel riconoscimento ha generato in me, come una dolce onda inarrestabile che mi invadeva, impregnava ogni mia cellula, totalmente.
Totalmente.
Perché dimentichiamo così facilmente quando l’universo ci abbraccia attraverso uno dei suoi elementi? Sì, perché dimentichiamo?

Scrivimi cosa ne pensi