Ozio e negozio
Si narra che il teatro sia nato in Grecia intorno al VI secolo a.C. come attività purificatoria all’interno di un momento dell’anno dedicato al sacro. Per tre giorni la polis, la cittadinanza, sospendeva ogni attività e si dedicava a “osservare” (theàomai in greco antico) quello che autori ed attori portavano in scena.
Attraverso drammi e commedie venivano raccontate e rappresentate storie simboliche, al centro delle quali si trovavano (quasi sempre) importanti scelte esistenziali e relative conseguenze. Alle coscienze dei cittadini venivano così mostrate le implicazioni che l’agire ha sul destino, attraverso l’approfondimento della concatenazione di causa ed effetto che regola la vita sulla Terra.
Erano giorni dedicati all’ozio, in cui ogni attività di negozio era sospesa. Ci si trovava perciò in uno spazio-tempo molto particolare, in cui non vi erano più differenze sociali, né di lignaggio né di censo: tutti erano lì per osservare, apprendere e poi mettere a frutto.
La nostra cultura occidentale moderna è figlia del famoso motto di Catone il censore, “l’ozio è il padre dei vizi”, e la stessa struttura dell’insegnamento scolastico mostra oggi una netta deriva verso la “formazione al lavoro”, la costruzione di una generazione di operai specializzati in qualcosa di utile e remunerativo (anche i manager più considerati – e pagati – sono in fondo operai di un sistema commerciale).
È quindi logico che l’ozio – da sempre un momento dedicato allo studio astratto e all’approfondimento meditativo – non abbia facilmente spazio nella civiltà moderna.
L’ozio non consiste nel “non fare niente”, ma piuttosto nel “non fare niente di ciò che è finalizzato all’utile”. È permettere alla propria coscienza di sganciarsi da tutti i doveri pratici dell’esistenza per poter vagare in uno spazio aperto, libero nel senso di non ancora occupato. È l’astenersi per un momento dal “fare” per mettere al centro della propria scena di vita l’“essere”, entrare in uno stato di vuoto in cui ascoltare e osservare le suggestioni che ci giungono dal centro di noi stessi e dallo spazio vibrante intorno a noi.
Alessandro D’Avenia faceva notare, in un suo bell’articolo estivo, che lo stesso termine “vacanza” – in cui l’ozio dovrebbe regnare sovrano – ha perso in genere la sua qualità di “spazio-tempo vuoto” (vacanza deriva da vacuum, vuoto), tanto siamo ormai avvezzi a riempirlo con ogni genere di occupazioni.
Perché fuggiamo il vuoto, come se avessimo paura di caderci dentro, di sprofondare in un abisso?
I Rosacroce del XVII secolo dicevano “Nequaquam vacuum”, “non v’è vuoto in alcun luogo”, tutto lo spazio (sia interno che esterno a noi) pullula costantemente di vita, non è un abisso in cui dobbiamo temere di cadere. Anzi, nel silenzio vibrante di quel vuoto vengono a noi le migliori ispirazioni, come poeti e scrittori ben sanno, come gli inventori (di oggetti materiali o eventi sociali o prospettive esistenziali) hanno sempre sperimentato.
Dunque … concediamocelo!
Proprio adesso! In questi giorni a cavallo della fine dell’anno, seguendo l’esempio della Natura, che si immerge – serena e fiduciosa – nel silenzio.
Ma anche dopo, tra un momento di “negozio” e l’atro, in onore a un respiro esistenziale di cui abbiamo bisogno … come dell’aria.
Alla faccia di Catone il censore! E di tutti quelli che sostengono che “se non è utile e produttivo è tempo perso”!
Concludo con un breve estratto di una mia amica social, la “Raccontadina”, che nel narrare una sua piccola-grande presa di coscienza mi ha fatto riflettere – una volta di più – sulla sterilità del ritmo esistenziale in cui siamo assuefatti a vivere. “Mentre ero ferma al semaforo, durante le consegne della verdura, un pettirosso per strada saltava su e giù dal marciapiede. Proprio così, su e giù, come i bambini, come chi è felice, come chi. Non so come è andata a finire perché mi hanno suonato, perché c’è sempre la fretta e io non lo so, quel finale. Per saperlo avrei dovuto aspettarlo. Manchiamo tutte le fini perché siamo sempre in cerca di nuovi inizi, ma è in fondo, proprio all’ultimo istante di quel momento, che potremmo avere la chiave per la serratura successiva. E invece no, non si aprono mai le porte, solo perché non abbiamo aspettato la chiave”.
Che ne dite, proviamo a fare altrimenti, nel prossimo anno?