Le ferite

Un giorno un mio amico medico mi fece soffermare su una cosa che avevo visto accadere in varie occasioni ma che non aveva mai attirato la mia attenzione.
A volte accade che, quando qualcosa lacera la nostra pelle, la ferita sia così ampia che i due lembi della pelle non riescono a ricongiungersi, per cui la ferita resta aperta e tarda a guarire.
A quel punto l’organismo inizia a produrre nuove cellule per colmare lo spazio tra i due lembi della pelle. Si tratta della guarigione “per seconda intenzione”, un processo più lungo, che lascia dietro di sé una cicatrice più o meno ampia a seconda della profondità e della vastità della ferita.
Abbiamo tutti – credo – qualche cicatrice di questo tipo sulla nostra epidermide, a dimostrazione che la ferita relativa si è rimarginata, ma lo stesso non si può dire per il nostro interiore, vero? Perché i nostri ideali e i nostri sentimenti sono sicuramente stati feriti in qualche situazione della nostra vita, e non sempre la ferita è guarita.
D’altra parte, a rimarginare le ferite del corpo provvede un sistema organico di salvaguardia del tutto automatico, una proprietà meravigliosa dell’essere umano di cui non siamo mai abbastanza consapevoli. Per le ferite dell’anima le cose vanno diversamente.

È convinzione diffusa che le ferite dell’anima possano essere guarite dallo scorrere del tempo, ma non credo che questa ipotesi sia valida, perlomeno non sempre e non per tutte.
Se osserviamo con attenzione, le conseguenze delle nostre ferite interiori si fanno sentire – direttamente o indirettamente – nel nostro modo di affrontare la vita ogni giorno, in ogni momento. Non basta rimuovere dalla nostra consapevolezza (cioè dimenticare) il dolore provato, né costruire una robusta corazza a protezione dei sentimenti offesi, o rifugiarci in una sorta di cinico nichilismo per non vedere più i nostri ideali calpestati. Finché la ferita vive nel nostro subconscio o nel nostro inconscio farà sentire la sua influenza.
Quello su cui mi preme soffermarmi ora è: si possono davvero guarire le ferite dell’anima? E se sì, come?

Ricette universali – valide per ogni caso e situazione – non credo ve ne siano. Tuttavia forse possiamo imparare qualcosa dal modo in cui il nostro corpo guarisce le ferite (stiamo parlando qui della “seconda intenzione”, poiché le ferite superficiali – sia del corpo che dell’anima – non meritano una particolare attenzione), poiché l’organismo provvede a colmare gli interstizi con della materia organica compatibile, da lui stesso prodotta.
Per quanto riguarda l’anima, qual è la “materia compatibile”? Ovviamente questo dipende dalla ferita, o meglio, dalla “zona dell’anima” che è stata colpita, cioè da quale ideale è andato distrutto o quale sentimento è stato offeso o danneggiato.
A volte però vi sono ferite che arrivano a toccare (e scalfire) il nostro “senso della vita”, quando una perdita (generalmente si tratta di questo) arriva a togliere ossigeno alla nostra voglia di vivere, quando abbiamo l’impressione di essere “andati in pezzi”.
La millenaria arte ceramica del Kintsugi ci fornisce una possibile analogia su come fare. Questa tecnica prevede che i pezzi rotti dell’oggetto in ceramica vengano uniti e saldati tra loro con un sottile strato di lacca urushi, un prezioso materiale derivato dalla resina di un albero, molto resistente e adesivo. Le linee di rottura vengono poi stuccate e carteggiate, e infine rifinite a pennello con altra lacca urushi, su cui si lascia cadere della polvere d’oro.

A cosa corrisponde nel nostro interiore, sul piano dell’anima, la lacca urushi?
Ai nostri valori più sacri, più preziosi, quelli che ci hanno accompagnato fin dalla nostra infanzia e che nell’adolescenza hanno fatto vibrare il nostro cuore, colmandolo di entusiasmo e spingendoci all’azione.
Anche se il confronto con la dura realtà della vita ha provveduto poi a mettere in discussione (e talvolta ad annichilire) tali valori, essi costituiscono – a un tempo – il fondamento e la stella polare della nostra incarnazione presente.
Essi sono intimi, individuali nel senso più stretto, e quindi diversi per ciascuno di noi.
Dato che però, nella maggior parte dei casi, li abbiamo dimenticati, messi in un baule in soffitta e lasciati lì, dove nessuno li può ritrovare (tranne noi stessi), dobbiamo andare a cercarli per riportarli in vita.

Una volta ritrovati questi valori, occorre ancora aggiungere polvere d’oro, poiché senza di essa è come essere un coccio rotto che è stato poi aggiustato e nulla più.
Da sempre l’oro è il simbolo diretto dello Spirito. Se vogliamo veramente guarire la nostra ferita più profonda, l’apporto dello “Spirito in noi” è indispensabile, e solo i nostri valori più sacri hanno la consistenza (la capacità) di attirarlo e di fissarlo.
Allora la nostra esistenza diviene un’esperienza vivente e vibrante, come ogni manufatto trattato con il Kintsugi è per sempre un pezzo unico di grande valore.

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