Il Samòn

Alla fine di un precedente articolo, “La vita moderna”, mi (e vi) chiedevo se esistesse un’alternativa all’illusione generalizzata – e organizzata – in cui siamo immersi, conscio che tale alternativa possa essere basata soltanto su un progetto di vita radicalmente diverso, sostenuto da valori elevati, attuato con decisione, realizzato concretamente.
Io faccio parte di una generazione che ha tentato qualcosa del genere, una cinquantina di anni fa, senza riuscire nell’intento. Forse non eravamo abbastanza maturi, forse ci si drogava un po’ troppo, forse – semplicemente – non era ancora venuto il tempo.
Oggi la consapevolezza (di alcuni) che questa civiltà ha raggiunto il “punto di non-ritorno” sta portando al nascere, qua e là, di iniziative che mettono l’essere umano e il suo rapporto con l’ambiente al centro di tutto.
Ne conosco direttamente una.

Alcuni anni fa Elias, un ragazzo tedesco stanco della sua vita da eccellente programmatore informatico, andò a vivere in Catalunya, si costruì una yurta (la tenda dei nomadi mongoli) e cominciò a coltivare un ampio terreno con il metodo dell’agricoltura rigenerativa.
Dopo poco tempo ebbe la fortuna di essere accompagnato da una ragazza italiana, Lumi, che si appassionò al suo progetto, accettò di buon grado i disagi che una vita di quel tipo comportava – elettricità solo da pannelli fotovoltaici, nessuna acqua corrente, gabinetto rigenerativo nel bosco – e creò con lui un primo nucleo vitale.
L’esperienza proseguì, negli anni successivi, con la costruzione di una piccola casetta nel bosco in terra cruda e paglia, e approdò infine all’acquisto del Samòn, una dimora storica della Catalunya ormai abbandonata da molti anni, circondata da parecchi ettari di terreno e di bosco e impreziosita dalla presenza di una fonte.
Alcuni disagi della vita quotidiana diminuirono, ma non si può certo dire che una casa ristrutturata per l’ultima volta nel 1863 offra quel tipo di confort a cui si è oggi abituati (compresa la mancanza della rete elettrica e la periodica latitanza del segnale telefonico).
Il loro progetto è ampio, comprende un grande e variegato orto rigenerativo, un birrificio, la possibilità di accogliere molti ospiti, sia per contribuire al lavoro che per semplice svago rigenerativo.

Perché ne parlo qui? In fondo, esistono già nel mondo svariate iniziative di questo tipo, anche più strutturate e ben organizzate.
Un giorno chiesero a un saggio come fare per riconoscere una persona davvero buona, e lui rispose «Non importa quello che lui dice, né come sembra. Bisogna vedere che atmosfera si crea in sua presenza. Perché nessuno è in grado di creare un’atmosfera che non appartenga al suo spirito ».
Questa brevissima storia fu raccontata qualche tempo fa da Tich Nath Han ed è un ottimo spunto per descrivere cosa ho trovato, quando sono andato al Samòn.
Ho visto persone – a volte amici o amiche, ma anche vicini di casa – che venivano ad aiutare («Cosa c’è da fare, oggi? »), poi andavano via, altri arrivavano, qualcuno portava del cibo, qualcun altro lavava i piatti e puliva, qualcuno prestava attrezzi, a volte – in caso di bisogno – anche la propria auto.
Si “respirava” comunità: nessun leader, nessuna tensione, ciascuno che offriva secondo la propria possibilità del momento ma senza risparmio, nessuno che pretendesse qualcosa, nessuno che giudicava qualcuno.
Non l’ho visto accadere solo una volta, è la regola-non-scritta, al Samòn. Qualcosa che irradia invisibilmente dal centro stesso del “progetto” e risuona serenamente in tutti i partecipanti.
Ho visto Maricrì, la mia compagna, tornare rigenerata da una settimana di lavoro piena di disagi (ha quasi settant’anni, non è più una ragazzina), con negli occhi la semplice felicità di un bimbo quando ha fatto un bel gioco.
Certo, la natura del luogo aiuta: il Samòn si trova in un bosco nel Montseny, una montagna ritenuta magica dai catalani; il silenzio da cui è circondato apre spazi insospettati alla coscienza; le albe stupefacenti con cui ci si sveglia arricchiscono l’anima; l’acqua della fonte è leggera e scintillante.
Ma io credo che ciò che rende davvero speciale questa particolare situazione sia la confluenza di tutto questo con lo spirito che anima il “progetto”. Lo spirito di chi ha scelto, intorno ai trent’anni, di andare al di là delle comuni abitudini della cosiddetta “vita moderna” per iniziare a generare una realtà diversa, di sacrificare – nel senso profondo di “rendere sacro” – la propria vita per cercare un’armonia più ampia e universale.
Ecco perché, nonostante gli esseri umani stiano – in questo momento della storia dell’umanità – dando il peggio di sé in molte aree del mondo, io penso che si possa ancora avere Speranza.

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